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La comunità per anziani

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Articolo pubblicato sulla rivista Animazione Sociale n° 8/9 del 1996

Volentieri presentiamo ai lettori una riflessione sul mondo degli anziani, osservato da un punto di vista pedagogico. Un mondo, trascurato dalla pedagogia ufficiale, che presenta una ricchezza di opportunità di riflessione per chiunque si occupi di formazione umana. Questo breve lavoro è frutto di una rielaborazione dell'esperienza dell'autore come direttore di un istituto per anziani. (Animazione Sociale).
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La comunità per anziani

Quando si inizia un lavoro di questo tipo, spinti anche da un certo entusiasmo, si potrebbe ritenere che operare in questo settore non debba essere poi così difficile. In realtà, già dai primi giorni, ci si accorge, modificando non di poco l'ampiezza dell'osservazione, che quel senso di apparente tranquillità, di apatia, di trístezza, di attesa passiva della morte, sono solo alcuni dei molteplici aspetti della vita di un anziano all'interno di un istituto. La comunità per anziani si è invece rivelata paradossalmente piena di vita; seppur con ritmi più lenti, scanditi dalle attività monotone e ripetitive della quotidianità.

Una vita di relazioni e dinamiche talmente ricca e intensa, che non basterebbe un'intera biblioteca per descriverne le variegate sfaccettature. Relazioni tra gli anziani ospiti che qualunque esperto in psicologia, psichiatria e sociologia, non riuscirebbe, allo stato attuale delle ricerche, a descrivere o spiegare senza comunque sentire un profondo senso di disorientamento. Più ci si avvicina, con qualunque approccio, al termine dell'esistenza e più si assiste ad un incredibile aumento di complessità.

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Proviamo a immaginare noi stessi da anziani. Questo in realtà sarà il nostro naturale destino di persone, a dispetto di una cultura che invece esalta in modo irreale e fittizio la velocità, il movimento, la vita giovane e allegra. Una cultura, anche imposta dai mass-media, che ignora l'anzianità e la morte come aspetti concreti dell'esistenza umana. Capisco perfettamente che questo possa non essere un argomento allegro, ma ciò non è colpa né dell'anziano (continuamente ignorato e isolato), né dell'invecchiamento. La responsabilità di questo grigiore, di questa sensazione, è da ricercarsi in una costante cultura educativa, individuale e sociale, e in una politica dello struzzo che ci hanno portati a evitare continuamente la riflessione attiva su questa realtà dell'esistenza umana e in particolare in riferimento alla nostra esistenza. E quando si esplora nella mente, cercando percorsi cognitivi sulla nostra vecchiaia o sulla morte, il risultato è, il più delle volte, un tornare indietro sui propri passi, un rifiutare irrazionalmente, un nascondersi, un reimmergersi dentro «la vita».

MORTE ED ESPERIENZA
Il pensare alla morte mina la riflessività umana: ma anch'essa fa parte della vita; la morte è certamente esperienza di vita in quanto, nell'esatto momento in cui essa si compie, la vita è ancora presente.

E vivere con significato (sia in senso religioso che laico) il periodo di vita che la precede comporta un cammino di preparazione per una sua accettazione attiva. Come «esperti della formazione umana», pedagogisti, educatori, insegnanti, ritengo che si abbia il dovere deontologico di pensare e attuare strumenti di ricerca per parlarne e agire più liberamente. E il motivo è semplice.

Il solo discutere intorno alla senescenza e alla morte, in termini pedagogici, comporta una valorizzazione delle riflessioni e delle pratiche educative riferite al processo formativo della persona, che siamo continuamente chiamati a promuovere. Perché pensare alla morte costringe a valutare con maggiore attenzione le scelte e le opinioni.

Pochi si soffermano sull'importanza di capire e accettare (per quanto ci è dato di farlo) l'esperienza della morte, per orientare e dare un diverso significato all'intero ciclo esistenziale.
Ma questo non significa rinunciare nella ricerca. D'altronde la vita non può essere solo analizzata con la freddezza dell'osservazione al microscopio di laboratorio.

La scienza dovrà sempre più fare i conti con la complessità che non si lascia incasellare o misurare, se non in alcuni suoi aspetti, dai bilancini di precisione o dalle statistiche. Dobbiamo renderci conto di questo una volta per tutte, contro la presunta «onniscienza» o il predominante potere di orientamento della cultura umana affidato ai metodi scientifico-sperimentali.

Parlare intorno alla senescenza e sull'esperienza della morte (che paradossalmente è un'esperienza di vita) significa, ad esempio, porre l'accento sulla necessità di avviare progetti educativi che valorizzino anche la dimensione esistenziale della terza e quarta età. Iniziando magari dalle prime classi delle scuole.

CULTURA E ISTITUZIONALIZZAZIONE
Sono fondamentalmente contrario all'esistenza degli istituti per anziani, perlomeno per come fequentemente vengono utilizzati, anche se allo stato attuale rappresentano una necessità sociale. E il motivo principale di questa contrarietà è che gli istituti sono il prodotto di una società e di una cultura che, nel loro cammino verso la civiltà, non sono ancora in grado, negando l'anziano, di dare il giusto valore alla persona.

Laddove l'anziano viene espulso dalla società con modi più o meno eleganti e relegato in un «ospizio» nella più totale solitudine, laddove l'istituzionalizzazione non è frutto di una libera e consapevole scelta di vita, laddove l'istituto non è una necessità legata alle gravi patologie della senescenza, laddove gli istituti sono delle «valvole di sfogo» per legittimare un'organizzazione sociale, economica e politica che mette in primo piano l'interesse personale, l'arrivismo, il consumismo, l'esclusione del diverso, negando così il valore della persona anziana, e più precisamente della sua mente, proprio allora si sta commettendo un vero abuso verso la dignità dell'uomo.

Escludendo l'anziano dalla società si nega, incoscientemente e irrazionalmente, che la persona sia inserita, dalla nascita alla morte, in un continuum esistenziale non frantumabile e che quindi sia degna del rispetto e della considerazione per tutta la durata del suo processo evolutivo e formativo.

Peraltro, non dobbiamo dimenticare che è solo in quest'ultimo secolo che la nostra cultura occidentale sta mostrando interesse e valorizzando l'individualità e il rispetto per ogni singola persona umana. Sono convinto che si arriverà in un prossimo futuro a delle soluzioni che facciano riacquistare all'anziano il suo giusto ruolo nel sociale.

Ma, per adesso, la realtà vede questi istituti proliferare, visto il sostanziale aumento della popolazione anziana, con tutte le problematiche sanitarie e socio-economiche ad essa connesse.

Quindi lo sforzo, in qualunque direzione possibile e praticabile, di chi opera nel settore della senescenza dovrebbe essere orientato verso un miglioramento della qualità della vita all'interno di questi istituti.

ISTITUZIONALIZZAZIONE E DISAGIO ESISTENZIALE
Istituzionalizzare un anziano - sia che questo avvenga per scelta che per necessità - comporta sempre un radicale cambiamento delle sue abitudini di vita, un allontanamento dai legami affettivi, un distacco dall'habitat naturale (la casa, gli oggetti di uso quotidiano, i piccoli gesti della quotidianità, i rapporti con il vicinato, ecc.), la convivenza forzata con altri anziani caratterialmente differenti.
E ancora, si assiste ad un impoverimento delle possibilità relazionali, in quanto i rapporti con i compaesani e con le altre persone esterne all'istituto si riducono sensibilmente; nelle situazioni più gravi si arriva al quasi totale isolamento.
Queste e altre variabili, impercettibili a un osservatore esterno poco attento, incidono negativamente sulla qualità della vita degli anziani ospiti.

Uno dei problemi maggiori, legati all'istituzionalizzazione, è rappresentato dal graduale processo degenerativo di estraneazione dal mondo sociale, che contribuisce all'aumento del senso di inutilità e di isolamento.

Ciò, aggiungendosi ai disagi dell'età senile e ai costanti timori legati alle condizioni di salute spesso precarie, contribuisce a condurre l'anziano a una graduale perdita della dimensione sociale che lo porta a chiudersi in se stesso (aumento della capacità introspettiva), orientandosi sempre più verso una direzione egocentrica dove l'altro passa in secondo piano.

Molti anziani non hanno la capacità di considerare e riconoscere il disagio e la sofferenza dell'altro, perché comunque, anche se non vero, «la loro condizione è sempre la più grave».

Per quanto concerne la qualità dei rapporti tra gli stessi anziani della comunità, non di rado si assiste, per futili motivi, a comportamenti verbali aggressivi sintomatici di un malessere esistenziale più generale. E spesso tale malessere ha un'origine multifattoriale, come ad esempio, i tratti base della personalità, la lontananza dai familiari, la convivenza forzata con altre persone con caratteri, abitudini ed esigenze differenti, lo stato di salute, la mancanza di rapporti affettivi con persone di fiducia e/o amici, la mancata partecipazione alla vita sociale del paese e, cosa assai più grave, l'impossibilità di scegliere soluzioni alternative alla vita dell'istituto.

Non bisogna infine dimenticare che gli anziani dell'istituto vengono ospitati anche per lunghi anni. E in questo lasso di tempo, l'individuo che non abbia curato un percorso formativo socio-culturale e individuale, un'integrità e una maturità del proprio sé, si trova a dover affrontare nella quasi totale solitudine le proprie sofferenze esistenziali. L'individuo anziano spesso non possiede gli strumenti per reagire a questa sua condizione di estremo disagio. A questo si aggiunge il fatto che è molto difficile per gli operatori riuscire a creare quel clima aperto e di fiducia per realizzare un colloquio d'aiuto costruttivo.


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